Original text translated in english
LA FOTOCHIMICA DELL’AVVENIRE
La civiltà moderna è figlia del carbon fossile; questo offre all’umanità civile l’energia solare nella forma più concentrata; accumulata nel tempo d’una lunga serie di secoli, l’uomo moderno se n’è servito e se ne serve con crescente avidità e spensierata prodigalità per la conquista del mondo. Come il mitico oro del Reno, il carbon fossile è per ora la sorgente precipua di forza e di ricchezza. La terra ne possiede ancora enormi giacimenti: ma essi non sono inesauribili. Il problema dell’avvenire comincia ad interessare e prova ne sia che lo scorso anno ne trattarono quasi contemporaneamente Sir William Ramsey alla « British Association for the advancement of Science » a Portsmouth ed il prof. Carl Engler alla «Versammlung deutscher Naturforscher und Aerzte » a Karlsruhe. Secondo i calcoli di quest’ultimo l’Europa possederebbe un patrimonio di circa 700 miliardi di tonnellate di carbon fossile e l’America altrettanto; a questi giacimenti sono da aggiungersi quelli ancora in parte sconosciuti dell’Asia. Il deposito è enorme, ma col consumo crescente lo sfruttamento si fa sempre più costoso per le crescenti profondità a cui bisogna arrivare: il problema quindi, se in certi paesi i giacimenti possono diventare praticamente inutilizzabili assai prima del loro esaurimento materiale, non è trascurabile.
L’energia solare fossile è la sola che possa giovare alla vita e alla civiltà moderna! That is the question.
Un esame assai accurato di questo problema dal punto di vista inglese è stato fatto da Sir William Ramsey. Egli ha preso in considerazione le diverse sorgenti d’energia, quali le maree, il calore interno della terra, il calore solare, il carbone bianco, lo sviluppo delle foreste e delle torbiere e perfino la disintegrazione atomica, ed è arrivato alla conclusione che nessuna apparisce praticamente utilizzabile in Inghilterra, date le sue condizioni orografiche e climatiche. Certamente l’energia endogena terrestre, che col vulcanismo ed i terremoti può produrre spaventosi disastri, sarà difficilmente ammansita dall’uomo e così pure quella derivante dalla rotazione terrestre (maree), causa l’enorme quantità d’acqua che bisognerebbe vincere. La trasmutazione atomica è stata oggetto recentemente d’un brillante articolo di Federico Soddy in questa stessa Rivista, dal punto di vista dell’imponente fenomeno esoenergetico ch’essa rappresenta: se all’uomo sarà dato realizzare un simile sogno, di giovarsi cioè dell’energia interna degli atomi, la sua potenza sorpasserà di gran lunga i limiti che ora gli sono assegnati. Questi presentemente sono dati dall’energia solare: vediamo se l’energia attuale possa in genere supplire a quella racchiusa nei combustibili fossili. Ammettendo la costante solare di circa 3 piccole calorie al minuto per centimetro quadrato, ossia 30 grandi calorie per metro quadrato al minuto e 1800 all’ora, si può comparare questa quantità di calore con quella data dalla combustione completa di un chilogrammo di carbone, che è di 8000 grandi calorie. Calcolando pei tropici la giornata di sole sei ore, si avrebbe al giorno una quantità di calore corrispondente a quella data da 1,35 chilogrammi di carbone, ossia in cifre tonde di 1 chilogrammo. Per un chilometro quadrato questa quantità di calore viene ad equivalere a quella prodotta dalla combustione completa di 1000 tonnellate di carbone. Sopra un territorio che abbia la superficie di soli 10 mila chilometri quadrati, lui quantità di energia solare che arriva in un anno, calcolando la giornata di sei ore, corrisponde quindi al calore fornito da 3650 milioni di tonnellate di carbone, dunque in cifra tonda 3 miliardi di tonnellate. La quantità di carbone fossile prodotta annualmente (1909) dalle miniere d’Europa e d’America si calcola a 925 milioni di tonnellate ed aggiungendo a questa cifra 175 milioni di tonnellate di lignite si arriva a 1100 milioni ossia a poco più di un miliardo. Però anche tenendo conto dell’assorbimento nell’atmosfera e di altre circostanze, ai vede che la quantità di energia solare che arriva annualmente in un piccolo territorio tropicale — che abbia una superficie ad es. grande come quella del Lazio — equivale alla produzione annuale mondiale di carbone fossile!
Il deserto di Sahara coi suoi 6 milioni di chilometri quadrati, ne riceve giornalmente per 6 miliardi di tonnellate! Questa enorme quantità di energia che la terra riceve dal sole, rispetto a cui quella immagazzinata dalle piante nei pe-riodi geologici è quasi trascurabile, va in gran parte dispersa. Essa viene utilizzata colle cadute d’acqua (carbone bianco) e dalle piante. Al suo impiego diretto termico-meccanico per mezzo di specchi s’è più volte pensato ed ora si fanno delle prove assai promettenti in Egitto ed al Perù, ma questo lato assai interessante del problema esorbita dalla mia competenza e però di esso non intendo trattare. L’energia prodotta dalle cadute d’acqua, secondo i dati contenuti nel bel discorso del Prof. Engler, sopra l’intera superficie terrestre equivarrebbe annualmente a 70 miliardi di tonnellate di carbone. Come si vede, e com’è naturale, assai poco rispetto alla totalità dell’energia solare che annualmente investe la terra. Vediamo ora quale sia all’incirca la quantità di energia solare che annualmente viene fissata dalle piante: sulla superficie continentale terrestre, di 128 milioni di chilometri quadrati, si producono annualmente per 32 miliardi di sostanza organica secca, la quale bruciata darebbe una quantità di calore corrispondente a quella di 18 miliardi di tonnellate di carbone. È poco, ma tuttavia questo poco è già ora 17 volte superiore alla attuale produzione mondiale di carbone fossile e lignite in un anno.I.
Ed ora entriamo nella prima parte del nostro argomento. È possibile, o per dir meglio, si può pensare che sarà possibile di fare aumentare questa produzione di materia organica vegetale in genere, di intensificarla in luoghi voluti, di intervenire inoltre nella coltura delle piante in modo da far loro produrre più abbondantemente quelle sostanze che possono servire di sorgenti d’energia, o che sono altrimenti utili alla civiltà? Io credo di sì.
Naturalmente con ciò non si pretende di sostituire al carbone fossile la materia organica prodotta dalle piante, ma si può pensare se non sia conveniente trarre da queste un utile maggiore.
Sovente è stato detto anche da persone autorevoli che la conversione del carbone in pane potrebbe diventare un giorno non solo possibile, ma anche economicamente desiderabile: secondo costoro l’ideale futuro sarebbe quello di produrre per sintesi dal carbone tutte le sostanze fondamentali per l’alimentazione umana: come l’amido, lo zucchero ed i grassi ed anche le proteine ed oltre a queste forse pure la stessa cellulosa: di abolire cioè l’agricoltura e convertire però il mondo in un gran parco di inutili fiori. Mai aberrazione maggiore è stata pensata ed espressa: il problema esiste soltanto nel senso inverso. Il mio amico prof. Angeli mi faceva giustamente osservare a questo proposito, che mentre l’esteriorità della vita s’è modificata profondamente coi progressi dell’industria in modo che il così detto « comfort » moderno usufruisce di tutti i ritrovati della tecnica, il genere e la quantità dell’alimentazione umana non hanno subìto quasi alcuna variazione; anzi è sorta una nuova scienza, quella appunto degli alimenti (bromatologia), per invigilare che nessun prodotto dell’industria entri abusivamente nella nostra alimentazione. Un tempo s’era tentato di sostituire la gelatina alla carne, ma tosto si vide, ed ora è ben chiara la ragione, per cui questo surrogato non poteva bastare a mantenere la vita. Non potrà mai apparire conveniente di produrre con le relativamente piccole riserve di carbone, che le passate epoche geologiche ci hanno dato in retaggio, quello che la natura gratuitamente ci offre su larga scala frutto dell’energia solare. È opera degna di plauso invece il tentare di far produrre alle piante in maggiore copia le sostanze fondamentali, ed a questo la moderna agricoltura largamente si avvia coll’intensificazione della coltura, ma ciò che può apparire vantaggioso è di giovarsi delle piante anche per fissare l’energia solare e convertirla in energia meccanica. Quando, per citare un esempio relativo ad un altro quesito, coll’enorme sviluppo della stampa quotidiana in tutti i paesi civili s’è dovuto provvedere ad una . adeguata quantità di carta a buon mercato mediante l’uso della pasta di legno, si trovarono subito alberi adatti, a rapido crescimento per fornire la cellulosa necessaria. Pel problema che ora ci riguarda, la qualità delle piante è fino ad un certo punto indifferente: possono essere arboree, di basso fusto o erbacee, a coltura asciutta o paludosa ed anche salmastre, o magari marine. L’essenziale è che crescan presto o per dir meglio che siano atte ad essere catalizzate nel loro crescimento; si tratterebbe di realizzare per così dire il desiderio di Faust:
Und Bitume die sich tiiglich neu begrtinen!
Mefistofele per conto suo non riteneva impossibile un simile compito:
Ein solcher Auftrag schreekt mich nicht,
solchen Schlitzen kann ich dienen.
Lo riterremmo noi, naturalmente in limiti assai più ristretti, dopo tanti secoli di coltura? Io non lo credo davvero. Il calcolo precedente per dedurre la produzione annuale di sostanza organica secca vegetale su tutta la superficie continentale terrestre, che, come s’è detto, ammonta a 32 miliardi di tonnellate, ha per base il vecchio dato di Liebig di 2,5 tonnellate per ettaro. Questa cifra può valere anche oggi come media generale per la produzione annuale di tutta la terra. Per altro con culture intensive, secondo A. Mayer, la produzione può essere spinta a 10 tonnellate per ettaro ed in climi tropicali può raggiungere anche le 15 tonnellate. Per chilometro quadrato la cifra ascende a 1500 tonnellate, corrispondente a 840 tonnellate di carbone; essendo poi l’energia solare ricevuta in un anno sul chilometro quadrato equivalente a circa 300 mila tonnellate di carbone, la parte assorbita dalle piante sarebbe di circa 1/300. Molto resta adunque ancora a fare, ma se si riflette che da Liebig in qua, giovandosi in fondo soltanto dei mezzi da lui proposti, la produzione ha potuto essere per lo meno quadruplicata, molto resta anche da sperare dall’avvenire, massime quando spinge la necessità, o anche la semplice convenienza. Ora non è impossibile pensare che aumentando fino ad un certo limito la concentrazione dell’anidride carbonica e facendo uso di catalizzatori si possa arrivare ad aumentare notevolmente la produzione di materia organica vegetale, impiegando naturalmente nel modo più abbondante i concimi minerali opportuni e scegliendo regioni adatte per clima e condizioni di terreno. La messe, seccata al sole, dovrebbe venire convertita integralmente nel modo il più perfetto in combu-stibile gassoso, avendo cura di fissare durante questa operazione l’ammoniaca (ad es. col sistema Mond) per restituirla poi al terreno quale concime azotato, assieme a tutte le sostanze minerali delle ceneri. Così si verrebbe a formare un ciclo rispetto alle materie fertilizzanti minerali, salvo le per-dite inevitabili in ogni processo industriale. Il gas così prodotto dovrebbe essere bruciato completamente sul posto in ima macchina termica e l’energia meccanica ricavata, fissata per l’esportazione od altrimenti utilizzata in modo di cui qui non importa trattare. L’anidride carbonica della combustione in-vece di lasciarla disperdere nell’aria dovrebbe essere condotta nei campi di coltivazione. Così l’energia solare fissata per mezzo di una razionale coltura potrebbe fornire energia meccanica a buon mercato e ciò forse meglio che con sistemi a base di riflettori termico-meccanici, perché le piante accumulano l’e-nergia ricevuta. Ma il problema della utilizzazione delle piante in concorrenza con quella del carbone fossile ha un altro lato assai più interessante. Anzitutto conviene ricordare le industrie che hanno per fondamento l’agricoltura: quella del cotone e fibre tessili, dell’amido, e della fermentazione alcoolica, delle materie grasse con tutte le sue derivazioni, la distillazione del legno, l’estrazione dello zucchero, delle materie tanniche tante altre minori. Tutte queste industrie sono suscettibili di miglioramento non solo nel senso ordinario di ulteriori progressi nelle manipolazioni delle materie gregge, ma bensì in quello di una maggiore produzione di queste ultime. Si pensi ai progressi fatti per es. nella produzione dello zucchero per mezzo delle barbabietole. Ora le piante oltre ad essere insuperate maestre o meglio ancora officine mirabili nella sintesi fotochimica delle materie fondamentali partendo dall’anidride carbonica col concorso dell’energia solare, producono con eguale semplicità le così dette sostanze secondarie. Queste ultime, che si ritrovano nelle piante quasi sempre in piccola quantità, sono preziose per altre ragioni. Gli alcaloidi, i glucosidi, le essenze e le canfore, la gomma elastica, le materie coloranti ed altre ancora interes-sarono ed interessano ‘l’industria organica assai più delle sostanze fondamentali, trattandosi di prodotti d’alto valore com-merciale. In questo campo s’è impegnata una lotta fra l’industria chimica e la natura, che fa veramente onore al genio ed alla perspicacia umana. Finora il catrame del carbone fossile ha riportato quasi sempre la vittoria. Quali siano queste vittorie non ho bisogno di ricordarlo qui, ma per altro non si può a meno di pensare che esse potrebbero diventare vittorie di Pirro. Una grande autorità nel campo delle industrie organiche considerava tempo fa il caso in cui per varie ragioni il prezzo del catrame del carbone fossile, e però anche quello delle materie prime in esso contenute, potesse subire un sensibile aumento e ne traeva le evidenti conclusioni per l’avvenire delle industrie che a quelle fanno capo. Tutti ricordano con ammirazione le grandi difficoltà che dovettero essere superate a proposito della scelta della materia prima per la produzione industriale dell’indaco: si dovette ricorrere alla naftalina perché il toluolo non poteva aversi nella quantità voluta. Ma non è soltanto l’inasprimento dei prezzi delle materie prime che può arrestare l’industria, essa può subire per lo meno una stasi per l’esaurimento dell’interesse scientifico per un dato campo di studi. Come è stato largamente riconosciuto, l’industria moderna è strettamente collegata colla scienza pura: il progresso dell’una determina necessariamente quello dell’ altra. Ora evidentemente la chimica del benzolo e dei suoi derivati non costituisce più il tema favorito come nella seconda metà del secolo scorso, ma assai più le materie ed i problemi relativi alla biologia. È lo studio della chimica organica degli organismi che sempre più s’impone ed è su tale argomento che si concentra l’attuale interesse. Non può mancare che questo indirizzo si ripercuota nella tecnica e possa segnare nuove vie all’industria. Del resto negli ultimi tempi alcune industrie organiche si sono sviluppate rigogliosamente all’infuori dell’anello benzolico del catrame. Le essenze ed i profumi, alcuni alcaloidi, come ad es. quelli della coca, sono oggetto di fiorenti industrie in cui si cerca di giovarsi di quelle materie che le piante producono in quantità relativamente abbondante per convertirle in prodotti di maggior valore. Come tutti sanno, ad es. dal citrale dell’olio essenziale del lemongras si prepara l’essenza di violetta. In questo indirizzo si deve perseverare, perché esso offre arra di sicuro progresso. È da sperarsi che la gomma elastica possa presto essere ottenuta utilmente per simile via. Ma la questione ha un altro lato che credo possa meritare la più seria attenzione: riguarda certe esperienze eseguite recentemente da me assieme al prof. Ravenna a Bologna.
Non perché io voglia attribuire a questi studi una qualche importanza pratica, ma perché essi provano come si possa intervenire direttamente nella vita delle piante e modificare in un certo senso i processi chimici che in esse si compiono. In una serie di esperienze dirette a determinare la funzione fisiologica dei glucosidi, noi siamo riusciti a farli produrre a piante che naturalmente non ne contengono. Così ad es. abbiamo potuto, con opportune inoculazioni, costringere il mais a fare la sintesi della salicina. E più recentemente, occupandoci della funzione degli alcaloidi nelle piante, ci è stato possibile modificare la produzione della nicotina nel tabacco in guisa da ottenere un notevole aumento, oppure una diminuzione dell’alcaloide in esso contenuto. Questo è l’inizio; ma non sembra possibile che con opportuni sistemi di coltura ed interventi si possa arrivare a fare produrre alle piante in copia maggiore di quanto non lo facciano normalmente, quelle sostanze che sono utili alla vita moderna e che noi ora con così gravi artifici cerchiamo di fabbricare coi modesti proventi del catrame del carbon fossile, Né può aver importanza il timore di sottrarre i campi alla produzione delle materie alimentari per favorire quella industriale. Un calcolo anche approssimativo dimostra che sulla terra v’è largamente posto per tutto e per tutti, massime quando le colture siano debitamente perfezionate ed intensificate ed adattate razionalmente alle condizioni del clima e del suolo. Ciò costituisce appunto il problema dell’avvenire.II.
L’industria organica può aspettarsi ancor molti aiuti dalla litochimica intesa nel senso ora indicato e la concorrenza fra questa e la chimica del catrame potrà essere incentivo di nuovi progressi. Per altro all’ingegno umano sorriderà sempre il proposito di progredire con le proprie forze e non v’ha dubbio che il grande sviluppo dell’industria del catrame è stato in parte promosso da questo superbo spirito di indipendenza. Sorge però il problema se non vi sia altro modo di produzione che possa gareggiare coi processi fotochimici dei vegetali. La risposta sta nell’avvenire della fotochimica industriale su cui intendo esporre brevemente alcune idee. I processi fotochimici non ebbero finora nessun rilevante impiego pratico
all’infuori di quelli fotografici. La fotografia destò fino dai suoi primordi il più grande interesse: la tecnica se ne impossessò e, come sempre avviene, ne promosse un rapido e brillante sviluppo. Malgrado le loro larghe applicazioni, i metodi fotografici non rappresentano per altro che un campo ristretto della fotochimica. Questa è stata in genere finora poco coltivata, fors’anche perché i chimici ne furono distolti da altri problemi che apparivano più urgenti. Così, ad es., mentre la termochimica e l’elettrochimica vantano già fiorenti periodi di sviluppo, la fotochimica è ai suoi primordi. Ora peraltro v’è un certo risveglio dovuto ad una serie di studi relativi ai problemi generali e ai singoli processi, massime nel campo organico a cui il mio amico dottor Paolo Silber ed io abbiamo preso viva parte; di questo progresso fanno fede anche due recenti trattati come quello del Plotnikow e l’altro del Benrath. Molto resta peraltro ancora a fare tanto nella fotochimica teoretica e generale che in quella speciale. Le reazioni fotochimiche seguono le leggi fondamentali dell’affinità, ma hanno particolari caratteri. Si distinguono segnatamente per il loro piccolo coefficiente di temperatura e sono però comparabili — ciò che tecnicamente non è senza importanza alle reazioni che avvengono a temperature ele-vatissime. Secondo una geniale idea del Plotnikow le radia-zioni luminose provocherebbero una ionizzazione diversa di! quella elettrolitica: la separazione di un ione richiede poi una quantità di luce che è determinata dalla teorica di Plank ed Einstein: la questione si attacca quindi alle più recenti ed elevate speculazioni della fisica matematica. Per le nostre considerazioni, il problema fondamentale dal punto di vista tecnico è quello di fissare con opportune reazioni fotochimiche. l’energia solare. Per far questo basterebbe potere imitare il processo (l’assimilazione delle piante. Esse trasformano, come è ben noto, l’anidride carbonica atmosferica in materie zuccherine (amido) con sviluppo di ossigeno. Invertono in altri termini l’ordinario processo di combustione. Che il primo prodotto dell’assimilazione sia l’aldeide formica è sempre apparso assai probabile; ora Curtius ne avrebbe finalmente dimostrata la presenza nelle foglie di faggio. La riproduzione artificiale di un simile processo mediante i raggi ultravioletti è già stata realizzata da D. Berthelot; con opportuni perfezionamenti non potrebbe esso venire utilizzato già ora negli altipiani tropicali! Peraltro la vera soluzione sta nel trovare il modo di giovarsi delle radiazioni che attraverso all’intera atmosfera arrivano più abbondantemente sulla superficie terrestre. Che questo problema sia possibile, lo provano appunto le piante. Con opportuni sensibilizzatori e catalizzatori si dovrebbe poter trasformare il miscuglio d’acqua ed anidride carbonica in ossigeno e metano, o eseguire altri analoghi processi endoenergetici. Le regioni desertiche tropicali, dove le condizioni del suolo e del clima rendono impossibile ogni ordinaria coltura, sarebbero aperte allo sfruttamento per l’energia solare che esso ricevono tutto l’anno in misura così larga da equivalere a miliardi di tonnellate di carbone. Oltre a questo processo, che rimetterebbe in valore i prodotti perduti della combustione, se ne conoscono vari altri che sono determinati dalle radiazioni ultraviolette o che potrebbero con sensibilizzatori opportuni diventare accessibili alle radiazioni ordinarie. Le sintesi dell’ozono, dell’anidride solforica, dell’ammoniaca e degli ossidi d’azoto e tante altre potrebbero diventare oggetto di processi fotochimici Si potrebbero poi immaginare varie pile fotoelettriche ed anche pile a base di processi fotochimici. Passando al campo della chimica organica, lo reazioni che vengono determinate dalla luce sono così molteplici che non deve essere impossibile trovarne delle praticamente utilizzabili. La luce favorisce in modo speciale i processi di reciproche ossidazioni e riduzioni che implicano, o sono associati a fenomeni di condensazione. E siccome la condensazione preferita è assai spesso quella del tipo aldolico v’è molto da sperare per l’avvenire, perché la condensazione aldolica è la reazione fondamentale della sintesi organica. Alcune esperienze eseguite recentemente dal mio amico Silber e da me possono servire a questo proposito di illustrazione ed esempio. Il caso più semplice è dato dall’azione della luce sul miscuglio di acetone ed alcool metilico in cui
si produce il glicol isobutilenico. Ma questa condensazione, che per se stessa può essere considerata come un processo di contemporanea ossidazione e riduzione, è accompagnata dalla riduzione del chetone ad alcool isopropilico ed ossidazione a sua volta dell’alcool metilico ad aldeide formica, la quale per altro non permane nei prodotti dell’insolazione, perciò si condensa con l’alcool metilico rimasto in eccesso e si trasforma in glicol etilenico
Applicando la stessa reazione fotochimica al miscuglio di acetone ed alcool etilico si hanno gli analoghi prodotti: il glicol trimetiletilenico ed assieme a questo l’alcool isopropilico ed il glicol dimetiletilenico:
Coll’acetone e l’alcool isopropilico, come era da prevedersi, si forma semplicemente il pinacone:
Nella serie aromatica, il benzofenone e l’alcool benzilico, assieme ad altri prodotti, danno il glicol trifeniletilenico:
Questo fu il primo caso in cui tale condensazione venne osservata, a cui fecero seguito altre analoghe studiate dal Paternò impiegando in luogo dell’alcool benzilico varie altre sostanze aromatiche. Che anche le aldeidi diano origine a processi di condensazione, lo dimostrarono anzitutto le osservazioni di Klinger, a cui tennero dietro quelle del Benrath. Per avere un’idea sulla varietà delle reazioni fotochimiche basterebbe anche limitarsi allo studio sistematico dei chetoni e degli alcooli. Nella chimica organica ordinaria, le reazioni si ripetono sovente in modo schematico: quelle fotochimiche presentano invece delle sorprese e sono però talvolta assai divertenti. Fino dalle nostre prime esperienze sapevamo ad es. che il suddetto benzofenone non si addiziona all’alcool etilico, ma invece si trasforma integralmente nel pinacone a spese dell’alcool che si ossida ad aldeide. Proseguendo nello studio dei chetoni alifatici omologhi dell’acetone, abbiamo trovato quest’anno un fatto assai rimarchevole. Il metiletilchetone si condensa con se stesso, per formare un paradichetone, riducendosi in pari tempo ad alcool butilico secondario:
Naturalmente la sintesi di dichetoni alla luce non poteva costituire una reazione eccezionale; già altra volta avevamo notato la formazione del diacetile; l’acetonilacetone si trova, come ora sappiamo, fra i prodotti provenienti dall’acetone in soluzione d’alcool etilico ed è possibile che anche i metadichetoni, ad es. l’acetilacetone, possano ottenersi per via fotochimica. Questi processi hanno una evidente importanza per i caratteri peculiari dei dichetoni, che sono in grado di subire le più svariate metamorfosi: da essi possono ottenersi derivati del benzolo; del pirrazolo ed isossazolo; della chinolina, del furano, del tiofene e del pirrolo. Anzi a proposito di quest’ultima metamorfosi, vorrei ricordare che al nostro suaccennato paradichetone corrisponde il tetrametilpirrolo. Volendo essere arditi, si potrebbe pensare alle relazioni che esistono fra i pirroli polisostituiti con radicali alcoolici e la clorofilla e vedere in queste reazioni la possibilità della sintesi di questa fonda-mentale sostanza per via fotochimica artificiale. La sua formazione nelle piante è dovuta ad un processo fotochimico come la sua funzione: non si sa peraltro se ed in qual misura la luce intervenga in tutti i processi sintetici vegetali, da cui prendono origine le tante sostanze che in esse si rinvengono. Le indagini dovrebbero procedere di pari passo, ché la fitochimica e la fotochimica troveranno nelle loro reciproche relazioni vicendevole aiuto. Tale cooperazione potrebbe avere industrialmente un grande avvenire. I prodotti grezzi formati dalle piante potrebbero essere perfezionati con processi fotochimici artificiali. In questi ultimi tempi noi ci siamo occupati assai intensamente delle modificazioni che certe sostanze appartenenti al gruppo dei terpeni e della canfora subiscono alla luce se gratamente per processi idrolitici. Finora veramente le nostre esperienze ci hanno insegnato come la luce possa guastare le essenze in luogo di migliorarle. Così ad esempio i ciclochetoni si idrolizzano per dare i corrispondenti acidi grassi: il cicloesanone dà l’acido capronico, il mentone l’acido decilico.
In fotochimica per altro un’azione non esclude l’altra; le reazioni possono essere invertite come lo dimostrano alcune re-centi esperienze con la luce ultravioletta, la quale in certi casi inverte le reazioni determinate delle radiazioni meno rifrangibili. Si tratterebbe di adoperare opportuni sensibilizzatori o catalizzatori. Del resto la fotolisi dei chetoni, che spesso accompagna l’idrolisi, per cui, ad es., dal mentono si ottiene l’isocitronellale,
l’apertura della canfora e la sua trasformazione in un ciclo-chetone non saturo ed altri simili fanno già prevedere quello che l’avvenire potrebbe dare. L’analoga scissione della pinacolina in butilene ed aldeide acetica,
è rimarchevole perché dimostra quali profonde scomposizioni possa produrre la luce. Essa può esserci nemica, ma conviene appunto conoscere bene le armi degli avversari quando si voglia sottometterli per valersi delle loro forze. Io non credo per altro che la tecnica debba aspettare ancora a lungo prima di trarre vantaggio dagli effetti chimici della luce. I processi di polimerizzazione, le trasformazioni isomeriche, le idrolisi, i processi di riduzione ed ossidazione con interventi organici ed inorganici, le autossidazioni, che la luce provoca tanto Umilmente devono trovare profittevoli applicazioni industriali, quando le indagini siano opportunamente di-rette a tale scopo. Il contegno dei composti nitrici e nitrosilici alla luce quale già ora l’esperienza ce lo ha fatto conoscere, potrà prestarsi a metamorfosi utilizzabili. La nostra nota trasformazione dell’aldeide ortonitrobenzoica in acido nitrosobenzoico, che ebbe tanto seguito per opera di vari sperimentatori, fino alla sua recentissima applicazione dovuta al Pfeiffer, il quale ottenne dal clorodinitrostilbene un nitrofenilisatogeno, tii ricordare la non meno nota trasformazione del benziliden – o – nitroacetofenone in indaco di Engler e Dorant e la prevedere un nuovo indirizzo fotochimico per le materie coloranti arti-ficiali. Il compito degli studi in proposito non deve essere limitato a preservare le materie coloranti dai processi di sbiadimento e sbianchimento ed in genere dalle alterazioni prodotte dalla luce. La fotochimica delle materie coloranti deve essere sorgente di nuovi metodi di preparazione e di tintoria. Già esistono pregevoli esperienze in proposito relative ai composti diazoici e merita menzione la recente osservazione di Baudisch per cui l’a-nitrosonaftilidrossilammina si trasforma per insolazione sulla fibra in azossinaftalina. L’autossidazione dei leuco-composti alla luce è una vecchia pratica di cui si giovavano già gli antichi per la porpora: ora il meccanismo è chiarito grazie alle note ricerche del Friedliinder, ma è evidente che in questo campo resta ancor molto a fare. Le sostanze fototropiche, che assumono alla luce colorazioni spesso molto intense che poi allo scuro ritornano al colore primitivo, si presterebbero ad applicazioni di grande effetto. Assai più delle materie fluorescenti, che danno sui tessuti colori cangianti, potrebbero attirare l’attenzione della moda tessuti tinti con opportune sostanze fototrope. Il vestito d’una signora che fosse similmente preparato, cambierebbe di colore a seconda dell’intensità della luce. Passando dall’ombra al sole si vedrebbero accendersi le tinte per cui la veste s’intonerebbe coll’ambiente in modo automatico: « le dernier cri de la mode à venir ».
***
L’energia solare non si spande ugualmente sulla terra: vi sono regioni privilegiate ed altre che la latitudine e le condizioni del clima rendono meno favorite. L’avvenire sarebbe per le prime quando l’industria sapesse utilizzare, nel modo ch’io ho cercato di abbozzare, l’energia che il sole vi profonde. I paesi caldi e tropicali verrebbero così conquistati alla civiltà che tornerebbe alle sue origini: le nazioni più progredite quasi pre-sentendo inconsciamente questa necessità gareggiano nella conquista delle regioni del sole. Là dove la vegetazione è ubertosa e la fotochimica può essere abbandonata alle piante, si potrà con colture razionali, come ho già accennato, giovarsi delle radiazioni solari per promuovere la produzione industriale. Nelle regioni desertiche invece dove le condizioni del clima e del suolo proibiscono ogni coltura, sarà la fotochimica artificiale che le metterà in valore. Sull’arido suolo sorgeranno colonie industriali senza fuliggine e senza camini: selve di tubi di vetro e serre d’ogni dimensione — camere di vetro — s’innalzeranno al sole ed in questi apparecchi trasparenti si compiranno quei processi fotochimici di cui fino allora le sole piante avevano il segreto ed il privilegio, ma che l’industria umana avrà saputo carpire: essa saprà farli ben altrimenti fruttare perché la natura non ha fretta mentre l’umanità è frettolosa. E se giungerà in un lontano avvenire il momento in cui il carbone fossile sarà completamente esaurito, non per questo la civiltà avrà fine: ché la vita e la civiltà dureranno finché splende il sole! E se anche alla civiltà del carbone, nera e nervosa ed esaurientemente frettolosa dell’epoca nostra, dovesse fare seguito quella forse più tranquilla dell’energia solare, non ne verrebbe un gran male per il progresso e la felicità umana.
La fotochimica dell’avvenire non deve peraltro essere riserbata a sì lontana scadenza: io credo che l’industria farà cosa assennata giovandosi anche presentemente di tutte le energie che la natura mette a sua disposizione; finora la civiltà moderna ha camminato quasi esclusivamente coll’energia solare fossile: non sarà conveniente utilizzare meglio anche quella attuale!Bologna, Università.
G. CIAMICIAN
Un pensiero su “La Fotochimica dell’Avvenire – G. Ciamician”