La difesa di Van
Nella primavera del 1915, mentre il mondo guardava gli eventi nello Stretto dei Dardanelli, una piccola comunità di armeni in un lontano angolo dell’Impero Ottomano combatteva una battaglia per la sopravvivenza della nazione.
Turchi ed Armeni
Alla fine del XIX secolo, i rapporti tra turchi ed armeni nell’Impero Ottomano peggiorarono costantemente. Con l’avvio della fine del “malato d’Europa”, a causa dei movimenti nazionalistici dei Balcani, molti gruppi cristiani dell’Impero cominciarono a chiedere sempre maggiori autonomie, raccogliendo forti ostilità da parte delle autorità imperiali. A causa della posizione dei territori abitati dagli armeni, a cavallo tra l’Impero Russo ed Ottomano, questi ultimi sono sempre stati sospettati di essere una “quinta colonna” dei russi, da sempre nemici degli ottomani.
Nel 1896, il “Sultano rosso” Abdul Hamid II iniziò una serie di repressioni e massacri nei confronti degli armeni, che portò alla morte di circa 300.000 armeni, oltre allo spostamento di molti altri attraverso i territori dell’Impero. Anche se Hamid II fu costretto ad abdicare nel 1909, i massacri deliberati degli armeni continuarono nella città di Adana, causando la morte di altre 30.000 persone.
Sebbene, in un primo momento, sembrava che il movimento dei “Giovani Turchi”, che portò alla caduta di Hamid II, potesse iniziare un’era di cooperazione etnica e religiosa, nel 1913 il Comitato ultranazionalista ed autoritario di Unione e Progresso (CUP) prese il potere, ed un triumvirato de facto di dittatori prese il potere. Il nuovo potere non fece mistero di avere una visione panturanica dell’Impero, ambendo a riunire tutte le popolazioni turche musulmane dell’Asia Centrale in un unico Stato Islamico.
Nel 1914, il crescente nazionalismo del nuovo governo, unito all’emergere della Questione Armena in campo internazionale e al reinsediamento di musulmani balcanici nelle aree abitate da armeni, contribuì a creare una pericolosa polveriera tra i turchi musulmani e la popolazione armena rimanente. La scintilla che fece esplodere le tensioni fu l’ingresso dell’Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale.
Capri espiatori del disastro
Nell’inverno 1914, Enver Pasha, uno dei triumviri ottomani, decise di invadere il Caucaso russo con la speranza di provocare una rivolta tra i musulmani turchi che abitavano nella regione. Tra i passi innevati delle montagne caucasiche, in migliaia morirono tra le fila turche. Il primo gennaio 1915 l’offensiva di Enver fu decisamente sconfitta dalle forze zariste. Dei 95.000 soldati ottomani, solo 18.000 tornarono vivi in patria.
Fu una sconfitta talmente umiliante che il governo ottomano cercò in tutti i modi di trovare un capro espiatorio su cui scaricare le proprie colpe. A tal proposito, Enver pensò di incolpare gli armeni locali e i disertori tra i soldati di origine armena della bruciante sconfitta.
Il luogo in cui fu combattuta la battaglia, Sarikamish, si trovava nel cuore del territorio storico armeno. Per suscitare il sostegno delle comunità locali, gli zaristi utilizzarono per le prime linee i soldati russi di origine armena. Il 30 dicembre 1914, durante una visita al fronte, lo zar Nicola II annunciò al capo della Chiesa Armena che “gli armeni erano attesi da un futuro brillante”.
Chiaramente, molti soldati ottomani di origine armena approfittarono del deterioramento della situazione per passare nelle linee nemiche, anche per vendicarsi dei massacri subiti da Hamid II.
Tuttavia, molti armeni continuarono a servire fedelmente l’esercito ottomano, tanto che Enver elogiò espressamente le truppe armene per i propri servigi. Scrisse addirittura una lettera al patriarca armeno di Konya per elogiare le truppe armene, facendo anche l’esempio di un sergente maggiore, Hovhannes, che ricevette una medaglia al valore.
Pur essendo assurdo dare la colpa della sconfitta alle poche truppe armene conivolte nella battaglia, la tesi fantasiosa si fece largo nella popolazione intimorita dallo spettro della guerra.
Quando l’ambasciatore americano Henry Morgenthau chiese spiegazioni riguardo gli eventi nel Vicino Oriente, gli fu prontamente spiegato da Talaat Pasha, uno dei co-dittatori, che la causa della sconfitta era certamente da attribuire al tradimento dei soldati armeni. Il CUP, in quel modo, diede inizio velocemente alla macchina del genocidio.
A partire dal febbraio 1915, tutti gli armeni dell’esercito ottomano furono mandati ai lavori forzati, obbligati fino alla morte. Alcuni armeni vennero fucilati in gruppi.
Tutti gli armeni che avevano diritto a portare le armi vennero disarmati, e frequenti incursioni omicide si registrarono nei villaggi popolati principalmente da armeni. Una delle zone più colpite fu la provincia (villayet) di Van, a stragrande maggioranza armena.
Dal paradiso all’inferno
Van era situata in cima alle montagne del sud-est anatolico, al crocevia delle frontiere ottomane, russe e persiane. Si affacciava sullo splendido lago blu di Van, immerso tra le cime innevate delle montagne. Il lago crea una fertile pianura con un microclima molto favorevole all’agricoltura, e a cavallo del XX secolo vide il fiorire di più di 100 villaggi, pieni di frutteti, vigneti e giardini di frutti esotici. La regione era una volta il centro del regno armeno medievale di Vaspurakan, un’eredità mostrata ancora nelle molte chiese storiche e monasteri che punteggiavano i fianchi delle montagne.
La più famosa, la Cattedrale della Santa Croce, risale al IX secolo e si trova ancora su una delle quattro isole del lago. L’amore degli armeni locali per questa regione è sempre stato fortissimo, ed è ben descritto nel proverbio armeno “Van in questa vita, il paradiso nella prossima”.
La capitale della provincia era chiamata allo stesso modo, Van. La città era divisa in due parti: la vecchia e la nuova. La città vecchia risiedeva sulla cima di una piccola collina, sede di una fortezza ottomana. La città sottostante era un labirinto di stradine affollate di chiese, negozi e bazar. A circa 6 miglia ad est si trovava la città nuova, conosciuta come “I giardini” a causa delle numerose piantagioni di pioppi e salici.
Più della metà della popolazione era formata da cristiani armeni, mentre il resto er aun mix di turchi, curdi e circassi.
Le prime difficoltà per il popolo armeno di Van arrivarono a metà febbraio 1915, quando il governatore Tahsin Pasha, molto amato dai locali, venne sostituito dal cognato di Enver Pasha, Jevdet Bey. Alto, bello e dai modi raffinati, Bey sembrava il tipico gentiluomo mediorientale. In realtà, dietro i modi gentili e gli abiti parigini, si nascondeva un crudele e sadico uomo assetato di potere, intriso di odio verso gli armeni.
Si era guadagnato il soprannome di “maniscalco di Bashkale”, per la predilezione ad inchiodare ferri di cavallo ai piedi delle sue vittime armene.
Alla fine di marzo, Bey si recò nella capitale ottomana, spendendo parole di pace verso gli armeni, i quali si sentirono tranquillizzati da un falso senso di sicurezza. In realtà era tutto uno stratagemma. Il governatore portò con sé una squadra di detenuti denominata il “Battaglione Macellaio”, con cui saccheggiò molti villaggi armeni, sterminandone la popolazione. Anche molti musulmani che cercarono di difendere i cristiani rischiarono la vita a causa della sua ferocia.
La resistenza armena
Le folle di rifugiati terrorizzati crearono un’onda di panico nella città di Van. Da settimane avevano notato un crescente numero di truppe turche attorno ai propri villaggi, ed ora si sentivano realmente minacciati di distruzione. L’unico aspetto positivo del terrore fu che creò un’uguaglianza sociale tra tutti gli armeni della zona, i quali si riunirono in nome della sopravvivenza. Venne formato il “comitato di autodifesa nazionale” composto da leader locali, e formulato un piano di difesa.
Vennero murate le porte delle case, scavate trincee e barricate le strade. Vennero distribuite armi ed evacuati i quartieri misti. Il 19 aprile, il Vescovo di Van scrisse una lettera in cui si chiedeva di ristabilire la pace, sentendosi rispondere:”Questo paese rimarrà agli armeni o ai turchi, ma sarà impossibile coesistere”. Le linee della battaglia erano state tracciate.
I due lati della battaglia erano numericamente sproporzionati. Il turco Jevdet aveva a sua disposizione circa 12.000 militari, mentre dalla parte armena c’erano solo civili maldestramente armati, circa 1.053 combattenti con solo 506 pistole in tutto.
Il 20 aprile 1915, due donne armene tentarono di introdursi dentro le linee ottomane, ma furono scoperte. Le urla delle due donne attirarono due uomini armeni, che però furono uccisi. Fu l’inizio della battaglia cruenta di Van.
Combattimento corpo a corpo
Incredibilmente, pur in inferiorità numerica, gli armeni riuscirono a tenere testa agli ottomani nei primi giorni della battaglia. Gli armeni ruppero gli argini dei canali di irrigazione ed inondarono le posizioni turche.
Sotto la sapiente guida dell’insegnante Aram Manukian, gli armeni, con il morale alto, iniziarono ad organizzare la battaglia all’interno della città.
Un Comitato di Difesa venne istituito per coordinare le operazioni militari. I giornali locali armeni diffondevano “notizie dal fronte”.
La struttura urbana costruita dagli armeni permetteva una difesa efficace della città. Molte case avevano intorno a sé un muro basso che venne rinforzato ed in alcuni casi collegato con quello delle case in prossimità per impedire l’avanzata delle truppe turche all’interno della città, formando così delle postazioni fortificate da cui era possibile controllare il nemico. Ogni casa diventava così una piccola fortezza da conquistare una alla volta.
I turchi aprirono il fuoco nelle strade nella speranza di riuscire ad aprirsi un varco, ma gli armeni mantennero le proprie posizioni, anche combattendo corpo a corpo.
Dietro le linee armene, ognuno dava il proprio contributo senza distinzioni di età o di sesso. Mentre le donne rifocillavano i soldati e ricucivano le uniformi, un gruppo di Boy Scout, guidati da una delle missioni americane, smistava messaggi, spegneva gli incendi, curava ferite.
Fu istituita un’onorificenza per chi si rese protagonista di azioni particolarmente coraggiose, la Croce d’Onore. Una venne assegnata ad una giovane ragazza che riuscì a spiare i militari ottomani prima di un contrattacco armeno.
Battaglia di logoramento
Nonostante le contromisure messe in atto dagli armeni, nel giro di due settimane la situazione peggiorò decisamente per i difensori della città. Con l’intensificarsi delle operazioni militari a Van, aumentarono anche quelle nelle campagne circostanti, che provocarono un flusso di rifugiati verso la città, che Jevdet decide deliberatamente di far passare attraverso le sue linee di attacco.
Ai primi di maggio, almeno 15.000 rifugiati si erano riversati in città, mettendo a dura prova gli approvvigionamenti di cibo e di cure mediche.
Seimila rifugiati furono accolti all’interno di una missione americana, guidata dal dottor Clarence Ussher, che coraggiosamente, rifiutò le minacce degli ottomani e curò la popolazione, nonostante le bombe che iniziarono a piovere nei pressi della struttura di accoglimento.
Il complesso della missione di Ussher era ubicata su di una collina da cui era possibile vedere la distruzione della città. La vista del monastero di Varak in fiamme, che conteneva un tesoro inestimabile di manoscritti armeni, fece precipitare il morale della popolazione.
Lo stress dell’assedio cominciò a colpire anche gli attaccanti, tra i quali erano presenti truppe curde e circasse, che iniziarono a disertare le proprie posizioni a centinaia.
In alcuni quartieri della città vecchia, in cui i vicoli tra le case erano particolarmente tortuosi, Jevdet fu costretto ad inviare 500 soldati turchi per aver ragione di 44 armeni asserragliati in un punto strategico.
Il resto della città iniziò ad essere bersagliato da colpi di artiglieria. Più di 16.000 bombe vennero scagliate dagli abili artiglieri turchi. In alcuni casi vennero usati mortai del XV secolo per scagliare proiettili da cento chili sui tetti delle case, che vennero distrutti in un sol colpo.
Secondo il mercenario Nogales, al soldo degli ottomani, gli armeni commisero il folle errore di radunarsi presso grandi strutture civili, facile bersaglio degli artiglieri turchi.
Fu così che la Cattedrale di San Paolo e la Grande Moschea, due dei più preziosi edifici medievali, vennero ridotti in macerie in un solo giorno.
I primi giorni di maggio, Jevdet, temendo l’arrivo in soccorso dei soldati russi, decise il cessate-il-fuoco. Offrì agli armeni la possibilità di rifugiarsi in Persia, ma gli armeni, temendo di cadere in un classico tranello turco, risposero di accettare solo nel caso in cui lo stesso Jevdet fosse presente lungo il tragitto.
Al ricevimento del rifiuto, Jevdet, su tutte le furie, riprese i bombardamenti.
L’arrivo dei russi
La situazione degli armeni, nonostante la sfiducia verso la proposta di Jevdet, era realmente catastrofica.
La tattica del “brucia e distruggi”, attuata dai turchi nei quartieri armeni, si era rivelata costosa ma efficace.
Al 12 di maggio, Jevdet controllava più dei due terzi della città. Le vittime armene erano numerosissime, ed il flusso di rifugiati, piuttosto che rinforzare le linee di difese, portò ad un aumento di epidemie.
Il 16 maggio, i peggiori incubi di Ussher sembrarono avverarsi, dopo aver visto che i cannoni di Jevdet furono puntati verso la missione americana.
Fortunatamente, nulla di tutto ciò accadde, grazie all’improvvisa ritirata degli invasori.
Un’ondata di euforia pervase gli armeni, che si riversarono in città ed iniziarono a vendicarsi bruciando i quartieri islamici.
La bandiera armena finalmente sventolò di nuovo nell’alto della cittadella, ed il 18 maggio i russi entrarono in città, liberandola.
Nelle campagne circostanti vennero ritrovati i cadaveri carbonizzati di 55.000 armeni, lasciati a marcire nei fiumi e nei pozzi, per avvelenarli.
I russi istituirono la Repubblica di Van e nominarono Manukian come governatore.
Nelle settimane successive, quello che poteva essere l’inizio di una nuova epoca per gli armeni si trasformò nel Genocidio Armeno.
Il 24 aprile 1915, infatti, i Giovani Turchi ordinarono l’arresto di tutte le personalità di spicco di origine armena presenti ad Istanbul. Vennero arrestati politici, intellettuali, medici, professori, tutti di origine armena.
Gli armeni sperarono che con l’aiuto russo sarebbero riusciti a risparmiare la vita di migliaia di connazionali, ma non fu così. Il 31 luglio i russi iniziarono la ritirata dai territori ottomani ed ordinarono agli armeni di rifugiati all’interno dei confini russi.
Iniziarono, così, le deportazioni degli armeni rimasti come vincitori a Van, che furono costretti ad abbandonare le proprie case, insieme ad altri 270.000 esuli.
(Fonte: HistoryNet)